DIPINTO DI BLU
di Duccio Trombadori *

 


Antonio Finelli dipinge da anni lontano dal mondo, per il suo privato piacere, assolutamente indifferente ma non ignaro di quanto accade nel mondo dell'arte odierno tutto pieno di fragori e rumori, popolato di grida visive condite dal moltiplicarsi di quella che già quaranta anni fa veniva definita 'avanguardia di massa' e figuriamoci oggi come la si potrebbe chiamare. Finelli ama il piccolo formato, dipinge per lo più paesaggi che nascono dal vero ma sono filtrati dalla sua mente in un ordito formale di accostamenti semplificati di proporzioni, colori e luci. I suoi quadri sono la stenografia visiva di un diario in pubblico dove il pittore enuncia un dialogo con i suoi fari prediletti e prescelti nel campionario della tradizione moderna italiana, quel 'novecentismo' che vide nella lezione 'francese' di Corot, Seurat e Cézanne un modello su cui indirizzare l'espressione: si vede che ama Carlo Carrà, Francesco Trombadori, Riccardo Francalancia, Antonio Donghi, Felice Casorati, Ottone Rosai, per dirne alcuni; si vede che ha sapientemente studiato le luci e le calme inquadrature di Edward Hopper, ha colto la misura di forma-colore implicita nelle tele di Andrè Derain o Albert Marquet. Un pittore 'attardato' si direbbe; se non valesse il monito di Jusep Torres Campalans, il pittore immaginario descritto da Max Aub, che, dopo l'esperienza vissuta dell' avanguardia storica, cercava 'una pittura che non passi di moda, che non sia una moda ma un modo di dipingere. Un modo umano di dipingere.Non una copia fedele per buona o discreta che sia. Una pittura geniale, ma non ingegnosa...che la gente non dica 'come è bella!', ma che si senta sorpresa da qualcosa di nuovo, di creato...'. 

Ecco dove mi pare che il solitario Antonio Finelli si diriga quando con diligenza meticolosa impagina i suoi spettacoli dipinti di paesaggi elementari e tutti rifiniti nel dettaglio, pieni di luce immersa nel colore, interessato com'è a scoprire il 'nuovo' in ciò che appare consueto, a 'creare' là dove tutto appare scontato e più che conosciuto. Frequentare alberi dai 'nomi poco usati' è impresa difficile tanto quanto fare della poesia 'onesta', ci ricordano Montale e Saba. Esercitare la pittura fino a cogliere il grammo di poesia che ci può restituire un lembo di paesaggio, è un modo analogo di intendere la legge prima della espressione autentica. Antonio Finelli, ha scelto questa via. Egli è un pittore nel vero senso della parola. Non ne fa professione. Vive appartato la sua avventura visiva. E' stato ed è un collezionista, un amatore d'arte, prima ancora di stendere colore sulla tela. Ho visto in passato i suoi paesaggi romani e berlinesi, con i tetti e i cieli capitolini, ed anche gli orizzonti grigi con il verde e bruno liquido della Sprea... Sono pitture valide, che confermano la idea attribuita da Max Aub al fantomatico Campalans: perché sono pitture che non passano di moda e scelgono uno stile, una maniera di vedere, un singolare e coerente 'modo di dipingere'. E con la medesima soddisfazione dello sguardo e della mente, posso oggi osservare la qualità delle nuove 'marine', che Antonio Finelli ha inteso dipingere costruendo una serie di cammei ben torniti ('au four de l'émailleur' direbbe Gautier) e che l'autore ha voluto immettere nel 'diario in pubblico' che da anni puntualmente viene annotando con l'accuratezza di un diligente stenografo dei sentimenti suscitati dalle 'cose viste' . 

Ne risulta un racconto visivo di preziosi e compiuti quadretti che isolano la linea d'orizzonte e formano un tripartito di zone di colore, tra l'azzurro, il bianco, l'ocra e qualche tocco di rosso intenso dedicato a fissare la sagoma di qualche pattino sulla sabbia, un tavolinetto, una banderuola. E' la rifinitura di queste isolate presenze, sagomate per una semplificazione descrittiva, a persuadere lo sguardo in una scala armonica di natura silente, e pure piena di allusioni e di richiami visivi. E' il tocco poetico, che mi pare raggiunga Antonio Finelli, col suo modo di vedere e di farci vedere (in modo 'nuovo') la consueta figura delle spiagge vuote, bagnate dalla luce settembrina, con gli ombrelloni appena tirati giù disposti in fila, con le ombre meridiane bene accentuate, e la mesta e sempiterna poesia del mare calmo, e pieno di luce, che ancora una volta ci riporta all' indimenticabile sintesi illuminata da Arthur Rimbaud: '...Elle est rétrouvée. Quoi? L'Eternité. C'est la mer allée avec le soleil...'.

 

* Duccio Trombadori, professore di estetica presso la facoltà di architettura dell’Università “La Sapienza “ di Roma è uno dei più autorevoli critici d’arte italiani e, come tale, è stato più volte membro direttivo della Quadriennale di Roma e della Biennale di Venezia.



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