Antonio Finelli e i suoi amici pittori, 2-8 dicembre 2011


Se la salvezza viene dai pittori
di Duccio Trombadori


Roma è una città di pittori. Ma ormai non ci sono più le osterie come quella della famiglia Menghi in Via Flaminia, dove, tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Cinquanta, si radunavano squattrinati e pieni di languore espressivo tipi come Mario Mafai, Orfeo Tamburi,Roberto Melli, Franco Gentilini, Fausto Pirandello, Salvatore Scarpitta, Giulio Turcato, Sante Monachesi, Carla Accardi, Piero Dorazio, e tanti altri protagonisti di una seconda metà di secolo (intendo dire: il Ventesimo) che ancora oggi appare semisepolta dalla congerie di fatti e fattoidi d’arte immiseriti dal gergo contemporaneistico e dal consumismo culturale.
Allora gli artisti si incontravano dove si pagava di meno il cibo. Adesso si incontrano nei loro studi. Forse si vedono poco. E pure sentono che un filo d’Arianna li accomuna in questa passione silenziosa del dipingere, dell’essere i “segretari della immagine”, e titolari di una esperienza vissuta elevata a culto della figura “giunta in superficie”. Sono maturati attorno alla nutrita terra pittorica di Roma Valeria Cademartori, Luca Di Branco, Alessandra Giovannoni, Bernardo Siciliano, e poi ancora Tito Rossini, Giulio Catelli e Ilir Zefi.
Sono figli di una linfa poetica sotterranea che non è destinata a seccare, vengono dalla idea che di Roma si fecero i migliori e più espressivi del primo e del secondo ‘900 (non li cito per comodità) e dalla lezione più vicina che ha dato negli anni Ottanta una piccola ma non esausta vampata di “ritorno alla pittura” (penso alla avventura “romana” e postavanguardista che è stata di Franco Piruca, Aurelio Bulzatti, Maurizio Ligas, Piero Pizzi Cannella, Lino Frongia, Paola Gandolfi, Stefano Di Stasio, et cetera).
Roma è città di pittori, che vagano di chiesa in chiesa, dal centro alla periferia, e raccolgono come rabdomanti tutti i segnali d’arte accumulati tra la terra e il cielo, e illustrano speranze e ideologie, coltivano un culto privato della “forma” e si raccordano in muto dialogare di figure, sensibilità attivate, spettacoli e visioni. Ecco che Antonio Finelli si è voluto accompagnare a loro, a loro si avvicina, per simpatia ed empatia, e anche per emulazione. Studia, Antonio, le loro mosse, e quasi ne ricalca i modi, accarezzandone le opere per amore collezionistico e per una intima, insopprimibile, vocazione ad abbandonare l’ordine dei “discorsi” per quello più originario della “forma”. Anche Antonio, così, dipinge e decanta il suo oracolo romano, girando attorno ai “Valori Plastici” per entrare nel vivo di una sua compiuta “costituzione di immagine”. A Roma i pittori sanno e imparano a guardare. Essi vagano per la città con occhi sgranati sulle pellicole sensibili della superficie dipinta di esperienze vissute, di quadri ammirati nelle chiese, negli studi, nei musei, nelle gallerie. I pittori guardano gli altri pittori, e con essi ragionano d’arte quando avviano l’esecuzione di un dipinto: una strada, un caseggiato, un lembo di paesaggio, una ragazza, un volto, una mano, o pure un bel cesto di frutta appena tolta dal mercato.
I pittori conoscono il segreto di una compostezza formale che mette capo alla cosa vista. A volte inseguono la sintonia di un dramma da raffigurare. A volte cercano la densità della materia cromatica per indugiare sul valore narrativo di una situazione umana (o di un semplice paesaggio). A volte però prediligono di inseguire il lampo della luce: e ne decantano il potere grafico secondo impaginati di attonito fulgore. Talvolta, poi, si soffermano sui contorni: e allora il disegno è ben tornito dalla congerie dei toni di colore, a volte ridotti al minimo, a volte soppesati in una somma di contrasti armonizzati.
La pittura è una nobile arte che non tradisce chi la abbraccia come centro privilegiato di espressione: dalla pittura può sempre nascere una raccolta meraviglia distesa sopra il piano, che risveglia memorie e pesca nel più vasto archivio del tempo e della storia. Non c’è vita senza cultura, come è vero che non c’è neanche il contrario. Allora, mentre l’immagine si deposita in modo adeguato sulla tela, è la vita stessa che suggella l’istante raffigurato in una promessa di fuggevole identità. Questo sanno i pittori e con loro Antonio Finelli, emulo sodale, missionario di una religiosità condensata nell’ordito sempre più espressivo della sintesi di forma e colore. Non c’è storia senza esperienza vissuta. Non c’è verità senza il calore della vita.
Forse, questa esperienza comune, questo “dialogo per immagini a più voci” -nutrito dai pittori amati da Antonio Finelli- e custodito nel cuore una Roma così distratta dall’inferno telematico, non è solo il segnale di una tenue per quanto decisa resistenza esistenziale, nutrita di speranze inappagate o di inconsolate rabbie espressive per la “miseria del presente” . Essa mi appare piuttosto il frutto di una proposta poetica ben più generosa e consapevolmente “filosofica”: vale a dire un invito alla meditazione visiva che solo l’arte della pittura può offrire per salvare la coscienza dalla frettolosa inconsistenza del nostro tempo e da quel gorgo di fragori e rumori che,vedi Shakespeare, “signifying nothing”, non significa nulla. E non mi pare poco.



Perché ho collezionato arte
di Antonio Finelli


“E’ bello” aveva detto Kant “ciò che piace in modo disinteressato”. Il piacere estetico era per lui puro piacere, finalmente libero dalla necessità. Un chiaro contemplare che da nulla venisse turbato. Una calma profonda che avvolgesse l’animo dell’osservatore.
Per buona parte del mio percorso pittorico ho cercato di perseguire questo obiettivo, forse, anche inconsapevolmente. Comunicare la sensazione un po’ magica e lievemente misteriosa nella visione contemplativa del reale è stato da sempre una mia idea fissa. In questo senso forte è stato il coinvolgimento emotivo “nel realismo magico” della pittura di Antonio Donghi e della letteratura di Massimo Bontempelli ed un articolo di Giorgio de Chirico “Il ritorno al mestiere”, pubblicato nel 1919 sulla rivista “Valori Plastici”, è diventato per me una sorte di manifesto. Ma la piena consapevolezza del mio senso estetico l’ho maturata solo con la lettura di Schopenhauer. Tramite lui ho afferrato con chiarezza ciò che fino allora avevo intuito, seppur confusamente. E’ la bellezza dell’arte (e la pratica dell’etica) che libera l’individuo dai falsi bisogni e dalla pressione condizionante dei desideri elevandolo a puro e disinteressato soggetto di conoscenza. E’ il fruire del godimento estetico che si propone come contributo importante alla piena consapevolezza di sé. Proprio questo mi ha spinto non solo a dipingere ma anche a collezionare lavori di altri pittori. Grande emozione fu il mio primo acquisto: “Le tre case” di Bernardo Siciliano. Su una parete della mia abitazione, ogni volta che ci passavo davanti mi procurava calma e serenità. E questa emozione si ripete da allora.
Le acquisizioni si succedettero. Venne il primo quadro di Valeria “Tiburtina n.2” , che ancora oggi illumina il mio soggiorno, poi “ le arancie” di Tito, che scaldano l’anima. E poi tutti gli altri: la potenza eruttiva di Ilir, l’incantamento di Luca, la leggerezza pesante di Amato, l’enigmatico Riccioni ed ultime acquisizioni, Alessandra con la sua luce irresistibile e Giulio dalla intrigante, astratta delicatezza. Acquisivo e continuavo, ovviamente, a dipingere. Non saprei dire quanto e come la presenza costante di tutti questi artisti abbia influenzato la mia pittura. Sicuramente ha influito sui miei stati d’animo, mi ha dato serenità e tranquillità, aiutandomi spesso ad affrontare momenti difficili della mia esistenza. Una conferma piena, se ce ne fosse stato bisogno, di quanto teorizzato dal mio amato Schopenhauer. E poi l’amicizia. Con la maggior parte di loro sono nate belle e solide amicizie. Ho fatto degli incontri straordinari, dove il piacere della frequentazione si confondeva con quello estetico e spesso il tutto diventava per me un’ulteriore spinta alla voglia di fare e di dipingere. Insomma una bella avventura. Un cammino che perdura tuttora e che vorrei sempre più condividere con gli altri.


OPERE

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